Un mondo di auguri

Il Racconto di Natale
di Massimiliano Benedetto
 
Foles Nole riconobbe a stento la sua immagine riflessa nello specchio.
La barba ispida del lunedì ne addolciva i lineamenti spigolosi, donandogli quella bellezza altera e fascinosa che aveva a lungo inseguito da giovane, allorché il naso pronunciato e le orecchie grandi e appuntite ne avevano limitato il successo con le donne.

Niente male, pensò, credo che dovrei provare a tenerla lunga per qualche giorno.
Si lavò il volto con cura, ripulì le narici dai peli bianchi che ne fuoriuscivano e sospirò, con il cuore pesante, pensando alla dura giornata di lavoro e alle modeste soddisfazioni che avrebbero dovuto gratificarlo.

Pochi minuti dopo scese le scale del condominio, salì sullo scooter e si intrufolò nel traffico cittadino, con la silenziosa compagnia delle migliaia di pendolari che sciamavano dalle colline circostanti.
Migliaia di cravatte svolazzanti e abiti in fresco di lana per gli uomini, tailleur con gonne sopra il ginocchio oppure pantaloni generalmente tendenti al blu per le donne; tutti indistintamente indossavano caschi di mille fogge e colori e respiravano l’aria tiepida del primo mattino.
Era il ventiquattro di dicembre 2199. Lo scooter sfrecciò agilmente per i viali di accesso alla città, avvolto da nuvole delle prime foglie ingiallite cadute dai ficus in una parvenza di ritorno delle stagioni, così come se le ricordavano gli anziani.
Foles canticchiò “Here comes the rain again” dentro il casco, mentre i suoi occhi venivano attratti dall’ultimo lembo di cielo libero dalle sagome dei grattacieli metropolitani.

Per la milionesima volta ripensò alla sua vita. Ho un’intelligenza sopra la media, rifletté, sono laureato in matematica e ho molti pregi. Sono ordinato, cucino bene, generalmente mi trovano simpatico e profumato come una calda brioche; ma nessuno mi vuole assaggiare.
Non voleva piangersi addosso, non la vigilia di Natale, perbacco, non era ancora troppo tardi per ricevere qualche dono dal destino.
Raggiunto il parcheggio dell’edificio in cui lavorava, parcheggiò con cura lo scooter tra decine di altri, meticolosamente appaiati nei piccoli spazi limitati dalle strisce, scese e infilò con cura il casco sotto la sella.
Si sentì nuovamente depresso e, curiosamente, cercò rifugio con lo sguardo verso il cielo, riconoscendo a fatica il volto pallido della Luna, la cui orbita, dopo il grande disastro, era sempre più distante, mentre la Terra sprofondava lentamente verso un luminoso e devastante abbraccio con il Sole.
Si voltò verso il grande orologio del count down: 8435 giorni alla fine.
Grazie a Nemesis, asteroide genocida che aveva spostato l’orbita della Terra, l’umanità ha ritrovato dignità ma ha smarrito il suo futuro, si disse. E io ho sempre convissuto con una spada di Damocle luminescente, così come tutta la mia generazione, che non vedrà mai il buio totale e non avrà mai il fegato di partorire, allattare, cullare né figli né speranze.
Calpestando l’aiuola lussureggiante (e qui soffocò un sorriso pensando all’immenso giardino tropicale che era diventata la Finlandia) si bloccò quando sul monitor comparve Mathias Gronholm, responsabile delle comunicazioni sui cambiamenti climatici.
“Buongiorno a tutti. Sono incredibilmente stupito”(i suoi occhi sembravano umidi)”di dovervi comunicare che nelle ultime dodici ore la temperatura del Sole è calata di oltre 1500 gradi kelvin”.
Fece una pausa. “Pare quindi che il nostro Sole, dopo miliardi di anni di onorato servizio, si stia spengendo come una candela bagnata”. Sospirò.”Non diventeremo polli arrosto, amici, ma preparate coperte calde e tirate la sciolina, tagliate piante e arbusti perché serviranno fuochi belli grandi per scaldarci.”

Foles Nole, così come altri duecento che avevano riempito la piazzetta, tornò a occuparsi del cielo, ora improvvisamente oscuro e minaccioso, forse carico di acqua.
L’aria si ficcava rigida e pungente nei tessuti leggeri che indossavano, stimolava brividi mai sentiti e ghiacciava i sudori. Quando a un tratto un tipo alla sua destra indicò un pulviscolo luminoso che ondeggiava incerto e solo.
E’ neve, gridò la folla estasiata,tutta di verde vestita. C’era chi saltava sui rami nodosi delle Dracene, chi abbracciava chiunque fosse a tiro, chi cantava Gingle Bells, chi piangeva in ginocchio come un marmocchio.
Foles si decise a entrare per vedere la faccia del capo, si disse che non doveva perdersela per nulla al mondo, la maschera di quel vecchio muflone.
Salì le scale frettolosamente urtando contro i rami rinsecchiti degli alberelli di Natale, provocando il tintinnare metallico delle palle, il rimbalzare delle ballerine e delle stelline, lo sfrigolio delle pigne.
Le luci degli addobbi parevano aver ripreso vigore con l’abbassamento delle temperature, così come i tappeti vermigli e i drappeggi argentati.
La porta dell’ufficio recitava ancora proverbi natalizi dalla sua maniglia parlante ma Foles era troppo entusiasta per curarsene, così la impugnò e la spalancò fremente di gioia, poi urlò:
“Sua signoria! E’ Natale!”.
Babbo Natale si stagliava imponente accanto al camino, ancora impolverato per l’ultimo tentativo di scalata, con la barba più grigia che bianca.
Sapeva già tutto. Si capiva dalla posizione da festività, con le mani sui fianchi abbondanti e il pancione generoso che prometteva armonia, i bottoni sempre più impiccati nelle asole e la cintura che pareva troppo corta.
“Foles Nole” brontolò festoso”o mio elfo preferito! Sella le renne e guarnisci la slitta perché stanotte la bianca coltre coprirà tetti e botteghe, riavvicinerà mogli e mariti, svezzerà adolescenti e guarirà i cuori piangenti. E io sarò tra loro per portare doni, sogni, speranze e vita”.
Foles si levò il cappellino appuntito e lo scagliò per aria in segno di giubilo perenne.
Domani è Natale, disse, auguri a tutti quanti.
 
 

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